Cronaca della prima ascensione sulla vetta del Gran Sasso d’Italia
La cronaca della prima ascensione sulla vetta del Gran Sasso d’Italia non è inedita. Essa fu pubblicata integralmente nel 1938 da Mario Esposito sul Bollettino della R. Società Geografica Italiana (S. VII vol. III anno 1938).
Fino a quel tempo era universalmente noto che il primo ad ascendere sul Gran Sasso era stato, il 30 luglio del 1794, il teramano Orazio Delfico. Tale opinione si radicò così stabilmente che un secolo dopo, nel 1894 fu celebrato il centenario dell’ascensione del Delfico, sia a L’Aquila che a Teramo. Lo stesso Delfico aveva affidato il ricordo dell’impresa ad un opuscolo, ora rarissimo, pubblicato in Teramo nel 1796 che poi fu più volte ripubblicato nel Bollettino del Club Italiano nel 1971.
Ma già nel 1895 sulla Rivista Abruzzese, veniva pubblicata una breve nota di G. Panza dal titolo “Una gita al Gran Sasso d’Italia fatta nel sec. XVI°“. In questa nota il Panza, basandosi su alcuni passi della cronaca del De Marchi, pubblicati a Modena nel 1816 dal fisico GianBattista Venturi (Memoria intorno alla vita e alle opere del capitano Francesco De Marchi, Modena 1816) rivendicava la conquista all’ingegnere militare Francesco De Marchi.
[…] lo Jacobucci, viceversa, sulla scoperta dell’articolo del Venturi, sostenne decisamente che il primo a conquistare la vetta Occidentale era stato il De Marchi, riconoscendo a Delfico il merito della prima conquista della vetta Orientale.
[…] nel 1572 il De Marchi torna a L’Aquila soggiornando in un palazzo che per antonomasia sarà in questa Città il palazzo della regina Margarita. De Marchi è ormai vecchio, ma non demorde dalla sfida: “così andassimo d’ Aggosto l’anno 1573“. E’ il 19 di Agosto. il 20 esploreranno le grotte amare di Assergi, ma di ciò si leggerà nella cronaca. Tre anni dopo, nel 1576 il De Marchi moriva in Aquila, e veniva sepolto. L’impresa del Gran Sasso conchiudeva la sua vita…
quasi a sigillare l’ansia inesausta di conoscenza
Prof. Alessandro Clementi
Riportiamo le parole di Francesco De Marchi sul Gran Sasso
Hora descriverò e dissegnerò un Monte che è detto Corno, il quale è il più alto che sia in Italia, et è posto nella Provincia d’Abbruzzo.
Questo Monte è situato in una grand’altezza; dalla parte della Cittate dell’Aqquila si monta nove miglia, sempre puoco o monto, per arrivare ad una Collina che è alle raddici di esso Monte, che si dice Campo Priviti. Il quale non [hà] uscita [e] l’Aqque e nievi che in essa cadono fanno un piccolo laghetto, et in altri luochi fanno delle concavità circolarie profonde quendici e venti piedi, e chi più e chi manco.
Questa Collina deve girar trè miglia all’intorno, e di queste buche ve ne sono le migliaia, le quali sumergano pietre in quendici o venti libre l’una e più. Qui vi nasce un’Herba sotilissima e spessa, ma non cresce più di un mezo dito ma è foltissima ed ingrassa le pecore assai; e quest’è per il mezzo giorno.
2. Il detto Monte era trenta du’ anni che io desiderava di montarci sopra per levar le dispute dell’altezze di altri Monti. Così andassimo d’Aggosto l’anno 1573, il signor Cesare Schiafinato milanese, e Diomede dall’Aqquila. Et andammo ad un Castello nominato Sercio lontano sei miglia; e qui cercammo chi ne condusse alla sommità del Monte: ma non potemmo trovar nessuno che mai ci fusse stato, dico alla cima, ancorche questo Castello sia il più presso verso l’Aqquila.
Mi fu detto che vi erano certi Chacciatori di Camoccie che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno, nominato Francesco di Domenico, il qual’era stato alla cima un’altra volta, e malamente vi voleva tornare. Poi pigliassemo du’altri che ne facessimo compagnia, nominati Simone di Giulio e Giovanpietro suo Fratello, li quali tutti non venivano troppo volentierii ma a preghi e premi vennero.
Addunque questo monte è veramente il più alto e il più orrido di tutti i monti d’Italia perche sendo alla cima si vede il Mare Adriatico, il Ionico, et il Tireno, et se non vi fussero tanti monti trà mezzo si vederebbe ancora il Mar Ligustico. Dico che vi son tali percipitii, che passano cinque miglia dove non. possano andar Huomeni, ne Annimali se non Ucelli; dicendo che Chi lassa cadere una pietra giù per una di quelle vene che per piccola ch’ella sia ne muoverà tante de l’altre che faranno un Tuono per un’hora che parerà cosa orrenda e spaventosa.
[…] quando l’huomo arriva fuori dove l’aria si vede li par essere uscito dalle tenebre, di modo che chi andarà in questa Grotta o profonda tomba li parera d’essere nelle tenebre, et chi andarà in coma del Corno Monte gli parrà andar sopra le nuovole.
Francesco De Marchi
Chissà quali altre storie avrebbero potuto raccontare quei Cacciatori di Camosci, come Francesco Di Domenico, spinti dalla sopravvivenza, che avevano asceso il Gran Sasso ancor prima degli illustri uomini che grazie alle loro parole hanno potuto trascrivere il frutto della loro continua sete di conoscenza.
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